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Lo spazio artistico di Maria Lai è fortemente connotato dall’influenzarsi reciproco di spiritualità laica e religiosa, il tutto nel silenzio. I Presepi e le Viae Crucis presentati nelle pagine di questo volume mettono in luce, ancora una volta, come il “fare arte” per Maria Lai debba rispondere alle esigenze e alle domande concrete e fondamentali dell’uomo, a quel bisogno di ricerca che muove anzitutto dalla propria intimità.
Fanno da contraltare alle opere che presentano la sua riscrittura della storia sacra, i disegni nei quali l’artista, attraverso tratti tanto essenziali quanto decisi, ritrae la cultura locale e la quotidianità domestica. L’arte per Maria Lai ha a che fare con il senso dell’esistere, e a questa ricerca si dà qui voce.
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È l’8 settembre 1981 quando Maria Lai decide di “legare insieme” le case di Ulassai, sua terra natia nell’entroterra sardo.
Le case e i suoi abitanti, che vivono a ridosso del monte e circondati da un teatro di rocce, sono i protagonisti della prima opera relazionale realizzata in Italia. Maria Lai crea un’opera che coinvolga tutto il paese e sia compiuta dai suoi concittadini. L’idea è quella di unire tutte le case tra loro con un nastro, che poi verrà legato alla montagna sovrastante, come simbolo di complicità tra gli uomini in relazione con la natura e l’arte.Si tratta di un intervento totalmente inedito che nasce ascoltando la gente. Quando Maria Lai intervista gli abitanti di Ulassai, comprende attraverso il dialogo i rapporti che intercorrono tra di loro, i legami, i rancori e persino gli amori e si rende conto di dover superare l’ostacolo della diffidenza. L’artista decide così di palesare i legami che uniscono il paese e che il nastro passerà in modo diverso a seconda del rapporto che intercorre tra le famiglie, tra casa e casa. Se c’è un vincolo di parentela e di affetto, al nastro si aggiungerà un pane della festa; se esistono legami di amicizia si farà un nodo; se invece ci sono motivi di rancore basterà solo il nastro, senza nessun altro segno.
Il volume Maria Lai. Legarsi alla montagna ci fa immergere in questa indimenticabile performance collettiva di Maria Lai di quarant’anni fa attraverso le intense fotografie di Piero Berengo Gardin che documentò l’evento, su alcune delle quali l’artista sarda è intervenuta con un pennarello azzurro trasformando le immagini e declinando in maniera coinvolgente la sua opera dal vivo a Ulassai.
La pubblicazione è presentata in versione bilingue italiano/inglese, in coedizione con la Fondazione Maria Lai.
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Questo cofanetto contiene i quattro mazzi di carte de I luoghi dell’arte a portata di mano, ideati negli anni Duemila da Maria Lai (Ulassai 1919-Cardedu 2013) con l’obiettivo di condurre adulti e bambini a un incontro autentico con “l’opera d’arte” e questa nuova edizione, realizzata a cura dell’Archivio Maria Lai e pubblicata in coedizione con la Fondazione Maria Lai (www.fondazionemarialai.it) fa riferimento a un corpus di carte su cui Maria ha continuato a lavorare negli ultimi anni.
I mazzi delle carte – ricche di rimandi simbolici – sono quattro, numericamente simbolo di concretezza e costruttività tangibili: Luoghi simbolici, Luoghi comuni, Luoghi relativi e Luoghi paralleli. Attraverso le azioni chiave – parlare, interrogare, leggere e interpretare – danno vita a un gioco totalizzante nel quale il lettore/fruitore ha la possibilità di estraniarsi dalla realtà ed educare il suo sguardo a “vedere”.
I luoghi intesi dall’artista sono luoghi di incontro e di dialogo in una dimensione, quella dell’arte, che la locuzione a portata di mano rende disponibile attraverso un invito al gioco.
La pubblicazione che accompagna le carte, a cura di Giuseppina Cuccu e con un contributo di Valentina De Pasca, illustra e dà una lettura di ogni carta e di ogni mazzo, aiutando il lettore a rispondere alle domande intrinseche dell’artista. L’assenza però di regole codificate o di “istruzioni” mette in evidenza la libertà interpretativa che queste carte intendono generare. Nella loro natura di opera d’arte, I luoghi dell’arte a portata di mano si propongono in un duplice aspetto: da un lato veicolano postulati teorici sulla realtà formale, compositiva e funzionale dell’opera d’arte, dall’altro si offrono come strumento d’indagine alla portata di tutti.
L’obiettivo dell’artista è stato quello di avvicinare all’arte quante più persone possibili senza limitazioni, poiché era profondamente convinta che l’arte avesse la capacità di cambiare il mondo aprendo le coscienze a una realtà più umana e più vasta.
“Giocare” con le carte de I luoghi dell’arte a portata di mano sviluppa la consapevolezza dell’ideazione creativa e del rapporto tra esperienza e comportamento: l’arte non deriva da istinto, da superficialità e da improvvisazione, ma è una dimensione che può essere raggiunta con un’azione di scavo, intenzionale e personale, nella nostra interiorità, con lo scopo mirato di costruire e dare solidità alla nostra coscienza.
Per tali motivi questo lavoro di Maria Lai viene sovente usato per laboratori sull’arte, in occasioni di mostre, di corsi professionali o di formazione, in scuole d’arte o in esperienze libere, con adulti ma anche con bambini, suscitando e generando domande continue e risposte sempre diverse.Editore : 5 Continents Editions -
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Maria Lai (Ulassai, 27 settembre 1919 – Cardedu, 16 aprile 2013) rappresenta senza dubbio una delle voci più significative della storia dell’arte italiana contemporanea. Questo non solo per i contenuti infusi nelle sue opere ma anche per l’eterogeneità della sua espressione artistica, profondamente polimaterica. Gli interventi di arte pubblica, la tessitura, il ricamo, la scultura, il disegno e la scrittura: queste le declinazioni della sua poetica.
Il libro accompagna la mostra al museo MAXXI di Roma (MAXXI, 19 giugno 2019 – 12 gennaio 2020) che presenta al grande pubblico quasi duecento lavori dell’artista sarda databili dai primi anni Sessanta alle ultime ricerche, e approfondisce, attraverso il contributo di esperti, i differenti temi che connotano la parabola artistica della Lai: le geografie, la creazione e realizzazione dei libri d’artista, gli interventi di public art e il suo rapporto con la parola e la sua scrittura. La totalità delle sue opere è connotata da un forte impatto visivo, dove emerge un “modo di fare arte” che altro non è se non strumento di pensiero.
La struttura del volume rispecchia quella delle sezioni tematiche della mostra, i cui titoli appaiono paradigmatici della sua opera: Essere è tessere. Cucire e ricucire; L’arte è il gioco degli adulti. Giocare e raccontare; Oggetto paesaggio.Disseminare e condividere; Il viaggiatore astrale. Immaginare l’altrove; L’arte ci prende per mano. Incontrare e partecipare.
Il titolo del libro e della mostra – Tenendo per mano il sole – si presenta come un vero e proprio omaggio alla prima fiaba cucita dall’artista nel 1983, e crea una sorte di ponte simbolico con l’Ogliastra, la terra di Maria Lai, dove negli stessi mesi presso la Stazione dell’Arte di Ulassai si terrà la mostra Tenendo per mano l’ombra.
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È contemplativo lo sguardo che connota lo spettatore davanti alle opere di Fabienne Verdier, artista che è riuscita a conciliare nella sua pittura arte moderna e tradizione orientale, esprimendo in modo potente l’armonia e il caos, ma anche il mistero della bellezza del mondo.
L’opera pittorica e l’universo artistico e spirituale di Fabienne Verdier sono approfonditi seguendo un percorso cronologico che esplora i diversi momenti costitutivi della sua biografia. Vengono messi in luce il legame con la calligrafia cinese, lo studio della pittura espressionista astratta e di quella fiamminga per giungere poi alla più recente ricerca inerente la connessione tra onde sonore e onde pittoriche.
Il volume, che accompagna la retrospettiva dell’artista che avrà luogo ad Aix-en-Provence in tre differenti sedi (Musée Granet, Pavillon Vandôme e Cité du Livre), mette in luce come il percorso artistico della Verdier sia connotato dal continuo confronto con sistemi di pensiero nati in seno a culture e periodi differenti. Il suo processo creativo si nutre di un’ibridazione di saperi e si manifesta attraverso soluzioni tecniche non scontate quali l’utilizzo di enormi pennelli con manubrio, leghe di smalto. I tre luoghi in cui si svolgerà la mostra faranno da specchio a questo suo modus operandi: al Musée Granet sarà possibile seguire la sua carriera artistica, alla Cité du livre si avrà modo di approfondire la sua ricerca sul legame tra pittura e musica e, in particolare, sui quartetti d’archi. Infine, il Pavillon Vendôme ospiterà il progetto basato sul legame tra il linguaggio e le forme plastiche e, nello specifico, consentirà di scoprire grandi opere realizzate a partire da alcune coppie di parole: labirinto-libertà, forza-forma, vuoto-vibrazione, canto-disastro.
Le trasformazioni evolutive che connotano la poetica della Verdier si sono oggi incanalate in una riflessione intorno al suo rapporto immersivo nella natura, aspetto che viene per l’appunto approfondito in quello che lei stessa definisce “l’atelier nomade” e che trova un punto fermo nel suo ultimo lavoro realizzato nel territorio adiacente la montagna Sainte-Victoire, non a caso un soggetto particolarmente caro a Cézanne. Sono tuttavia molteplici le tematiche che confluiscono nel suo atelier nomade: certamente la continua evoluzione del suo atelier, ma anche l’influenza del contesto e del paesaggio, nonché lo sviluppo di nuovi strumenti adatti alla pittura.
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Frédéric Bruly Bouabré (Costa d’Avorio, 1923-2014) è un artista autodidatta, e uno degli esponenti internazionali più significativi nel secondo Dopoguerra non solo per le sue creazioni visuali, bensì anche per il suo apporto in ambiti culturali quali la poesia, la filosofia e la saggistica. Nel 1948 ricevette una “rivelazione”: da allora si definì “Cheik Nadro” (colui che non dimentica) e in quell’occasione non solo iniziò una ricerca filosofica sulla realtà africana e sul significato della vita, ma cominciò a creare l’opera di carattere monumentale intitolata Connaissance du monde. Realizzò con una penna e matite colorate, su cartoncini 10×15 cm, una sorta di enciclopedia visuale che si arricchiva di giorno in giorno.
Un altro suo lavoro di particolare interesse è Alphabet Bété, un alfabeto costituito da 448 pittogrammi monosillabici che vorrebbe collegare le culture europee con quelle africane in ottica di fratellanza.
Queste due opere così significative, insieme ad altre serie di disegni dell’artista, sono il nucleo centrale di questo volume che accompagna la mostra organizzata al MoMA di New York dal titolo «Frédéric Bruly Bouabré: World Unbound».
Bouabré ha esposto presso le più prestigiose istituzioni internazionali: dal Centre George Pompidou di Parigi, al Guggenheim Museum di Bilbao, alla Tate Modern di Londra e al Portikus di Francoforte. Ha partecipato inoltre alla 55a Biennale di Venezia, a Documenta di Kassel e alla Biennale di San Paolo.
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«L’immagine non deve essere capita, ma guardata e basta, a
bocca aperta, senza sforzo intellettuale» (SANDOR MARÁI).
Nell’isola chiamata dai Greci Ichnusa e assimilata a un piede umano, fra cardi selvatici, macchie di lentisco e di elicriso dall’intenso profumo, in paesaggi assolati e battuti dal vento, si trovano chiese, monasteri e pievi di antica costruzione, perlopiù cadute in disuso. Sono edifici battezzati con i nomi di santi, un tempo parte di un tessuto urbano oggi vuoto di uomini, accomunati dalla posizione solitaria che ne aumenta il fascino paesistico: veri e propri miracoli di pietra, di rara bellezza, simboli di una sacralità intrinseca del territorio. È in questa Sardegna poco nota, senza mare, che trova ispirazione Giancarlo Pradelli nel suo viaggio nell’entroterra. Il suo sguardo non si sofferma solo su edifici prestigiosi, frutto delle storiche infiltrazioni culturali nell’isola, ma predilige modeste costruzioni di stili diversi e rustiche chiese campestri, di matrice pastorale, realizzate da maestranze locali per resistere alla forza del vento e al clima mediterraneo. Spesso ridotti alla condizione di muri crollati per il potere corrosivo del tempo, questi relitti, ormai vago ricordo delle originarie architetture, hanno assunto una nuova forma, destinata inesorabilmente a ulteriori silenti mutazioni.
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Il volume si presenta come il contenitore di un ampio poema visivo nel quale Party gioca il suo ruolo su più fronti: talvolta veste i panni dell’artista, talaltra dello scenografo, del conservatore, dello scultore. Il suo lavoro prende spunto dall’opera L’heure mauve realizzata nel 1921 dal pittore canadese Ozlas Leduc, che dà – tra l’altro – il titolo alla mostra, e si concentra sulle diverse concezioni del rapporto tra l’uomo e la natura testimoniate nel lungo corso della storia dell’arte. Ne emerge un ambiente naturale in continua metamorfosi: è luogo di pericoli e catastrofi, territorio da conquistare, spazio disseminato di rovine dell’antico oppure di silenzi qualora le tracce umane siano assenti. La natura diviene poi il teatro dell’Antropocene dove il legame con l’essere umano è divenuto insolubile e dove il passare del tempo e la finitezza danno spazio a sentimenti di melanconia.
L’artista interroga l’immagine del mondo, e lo fa dialogando concretamente con gli spazi e le opere della collezione del Montreal Museum of Fine Arts, e il volume riflette questo suo percorso personale attraverso un’originale impostazione grafica e una confezione preziosa quanto il contenuto.
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La 5° Biennale di Art Brut proporrà una nuova sfaccettatura delle molteplici opere appartenenti alla Collezione dell’Art Brut. Consacrata al tema delle credenze, ci svelerà il legame particolare che gli autori dell’Art Brut intrattengono sia con la religione che con le scienze occulte.
Parecchi autori illustrano soggetti religiosi rivisitandoli o appropriandosi dei riti religiosi. Altri s’inventano una dottrina del tutto personale per i loro scopi e, come demiurgi onnipotenti, integrano le loro opere alla nuova confessione, utilizzandole come supporto a profezie o per scongiurare la cattiva sorte. Quanto ai numerosi spiritisti o medium ispirati che affermano di essere in contatto con l’aldilà, essi creano sotto l’influenza diretta di spiriti, di defunti o di forze soprannaturali e negano la paternità dei loro lavori.
Per un loro credo diverso e originale, tutti, a loro modo, trascendono le condizioni di vita spesso difficili. La selezione delle opere presenterà sia delle illustrazioni di divinità o di personaggi religiosi sia delle composizioni astratte di grande raffinatezza, dei dipinti di carattere simbolista e oggetti rituali.
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Il volume è un racconto visivo di rara sensibilità che porta alla luce l’eccezionalità di una collezione inedita costituita da oltre 2700 fotografie realizzate dal 1850 al 1950 che ritraggono il sentimento amoroso tra uomini in immagini scattate nei contesti più eterogenei (ambienti domestici, militari, parchi, spiagge…). Tutti sappiamo cosa significa innamorarsi, amare, manifestare i propri sentimenti e questa consapevolezza emerge prorompente in tutto coloro che sfogliano Loving. Amare e amarsi diventa il solo paradigma che accomuna l’umanità intera, il sentimento e le emozioni che ne derivano sono prorompenti, totalizzanti, talvolta inesprimibili.
Il lettore viene introdotto allo storytelling fotografico attraverso una prefazione di Paolo Maria Noseda e un testo a cura di Hugh Nini e Neal Treadwell, la coppia di collezionisti texani, residenti a New York, che da oltre vent’anni si occupano di raccogliere fotografie che testimoniano l’amore romantico tra uomini.
La collezione, nata in modo del tutto accidentale – i primi scatti furono infatti acquistati in mercatini delle pulci –, raccoglie fotografie non unicamente ascrivibili al territorio americano, ma anche ad altri Paesi tra cui Australia, Bulgaria, Canada, Croazia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Lettonia, Regno Unito, Russia, Serbia.
Nella maggior parte dei casi le coppie costituiscono l’unico soggetto dell’immagine, ma non mancano esempi in cui compaiono altri personaggi con il ruolo, non troppo sottaciuto, di testimoni. A questi si aggiunge ovviamente lo sguardo del fotografo che rappresenta talvolta la sola persona in grado di custodire quanto le si manifesta davanti agli occhi. Il lettore non può infatti prescindere dalla contestualizzazione cronologica degli scatti, così come dal riflettere che dietro ciascuno di essi si è celata una storia d’amore in molti casi proibita, un amore difficile, emozioni soffocate.
Le oltre 300 immagini che ritmano il volume mettono anche in luce le inevitabili trasformazioni avvenute tra XIX e XX secolo nel campo della moda, delle acconciature e del design automobilistico.
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In Paris Michael Wolf, noto ai più per aver vinto con il progetto China, Factory of the World il World Press Photo Awards nel 2005 e con Tokyo Compression il medesimo premio nel 2010, posa il suo sguardo, e quello della sua macchina fotografica, sulla Capitale francese. E lo fa nel modo che più gli si confà: identifica gli elementi architettonici, e non solo, che connotano in modo univoco il paesaggio visuale parigino e li immortala.
Tetti, comignoli e lucernari ritmano le immagini fotografiche con i loro colori, le loro forme e, soprattutto, i loro volumi. L’universo visivo di cui ci rende partecipi conduce il lettore/osservatore a seguire con lo sguardo le linee segmentate delle pareti e delle grondaie, a soffermarsi su particolari non sempre evidenti. E infine a immaginare il contesto ambientale e architettonico che fa da cornice agli scatti, rigorosamente rettangolari.
L’aria sognante che inevitabilmente accompagna il viaggio in una Parigi vista dai suoi caratteristici tetti trova ulteriore conferma nella seconda parte del libro, dove le ombre degli alberi decorano le facciate di alcuni palazzi modulando una poetica visuale che lascia spazio a un dialogo intimo in cui natura e architettura arrivano a confondersi in assenza dell’umano.
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Carlo Zinelli, chiamato comunemente Carlo (1916-1974), è una delle figure di riferimento dell’Art Brut al pari di Aloïse Corbaz, André Robillarde Adolf Wölfli. Il volume a lui dedicato dalla Collection de l’Art Brut di Losanna – l’istituzione pubblica che conserva il corpus più rilevante di opere dell’artista italiano – raccoglie diversi contributi relativi a Carlo Zinelli scritti da esperti in differenti discipline.
Le parole recto verso che arricchiscono il titolo del volume sono mutuate dalla consuetudine dell’artista di realizzare disegni e dipinti della medesima intensità e qualità su entrambi i lati dei fogli di carta. Per Zinelli la creazione artistica era il mezzo per scappare dalla sofferenza nonché dalla malattia: era insomma il suo mezzo per sopravvivere!
La multidisciplinarietà che connota l’approccio di questo libro consente di dare il giusto peso all’opera eterogenea dell’artista che va dagli scritti alle composizioni grafiche, conosciute ai più per la loro peculiare accumulazione di motivi tra i quali emergono in particolare esseri umani, animali così come veicoli, ma anchedi seguire lo sviluppo della sua espressione artistica che era per lui il mezzo migliore per rendere eterne le sue memorie di infanzia nonché ciò che amava della vita (la musica, la natura e gli animali).
Il volume bilingue presenta un ricco corpus di illustrazioni così come di riproduzioni di opere di Zinelli, scatti fotografici – molti dei quali realizzati da John Phillips – e materiale d’archivio inedito.
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Nel presente si guarda al passato per vedere cosa, effettivamente, sia cambiato. Questa la riflessione da cui è partita Orith Kolodny nel progettare questo agile volumetto, color rosa-cioccolato, che richiama la nostra attenzione sulle trasformazioni di cui siamo testimoni. Lo fa contrapponendo – in un dialogo senza parole – simboli, icone, modi di fare e pensare. La colomba, icona di pace, si trasfigura nell’uccellino che connota l’universo social di Twitter. La cabina del telefono ha ormai perso ogni tipo di materialità, ora si va in cerca dell’astratto simbolo della rete wi-fi. Questi sono solo alcuni degli esempi contenuti in questo libro intergenerazionale, nel quale i cambiamenti vengono illustrati senza giudizio, benché talvolta ci conducono ad abbandonarci in un momentaneo sorriso amaro.
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Nato schiavo intorno al 1853-1854 in una piantagione di cotone a Benton, in Alabama, Traylor è stato uno degli artisti autodidatti più importanti del XX secolo e sicuramente uno dei più celebri artisti afroamericani, insieme a Thorton Dial e William Edmondson. La vita e l’opera di Bill Traylor potrebbero ispirare un romanzo. Gli elementi della sua biografia vanno a comporre una mitologia personale e la sua opera racchiude simboli nascosti presi dal voodoo kongo, dall’hoodoo, dai Battisti del Sud, dalla massoneria e dalle fonti del blues, oltre che da diversi altri riferimenti come la schiavitù e la violenza estrema dell’epoca di Jim Crow.
Composto da due racconti visivi accuratamente allestiti e con più di 150 opere d’arte provenienti da collezioni private e pubbliche, questo libro è generosamente illustrato da magnifiche riproduzioni a pagina intera. Le autrici hanno creato sequenze dinamiche di opere d’arte per presentare il programma concettuale di Traylor, con le sue componenti pittoriche strutturali, stilistiche e tematiche. I testi che accompagnano questi racconti per immagini permettono di studiare i temi ricorrenti dell’artista, i suoi schemi compositivi, le sue iconografie favorite e le informazioni contestuali legate alla sua biografia, ai suoi processi e strumenti creativi, al suo contesto visivo e al suo universo artistico.
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Dopo Véhicules e Architectures, questo terzo volume della collana “Art Brut, la Collection” che accompagna le Biennali dell’Art Brut, è dedicato al corpo e propone opere poco conosciute delle collezioni del museo di Losanna.Il libro raccoglie un nutrito numero di disegni, quadri, fotografie e sculture e rispecchia le molteplici rappresentazioni del corpo nelle produzioni di Art Brut, senza perdere di vista la dimensione del dialogo intimo che gli autori intrattengono con le loro creazioni. Queste opere sono il frutto di un corpo a corpo: rappresentano «battaglie» senza mediazioni o concessioni, che l’autore intrattiene con la propria immagine e con il proprio vissuto individuale. Per alcuni il corpo è rifugio di un’intimitàcomplessa, per altri una prigione da cui fuggire o ancora il centro di energie da liberare e trasformare.Poco esposti e poco pubblicati, i tatuaggi dei prigionieri mostrano l’interesse di Jean Dubuffet – fondatore dell’Art Brut e ideatore del museo di Losanna – per le creazioni ai margini del mondo dell’arte. Ai grandi «classici» dell’Art Brut come Aloïse Corbaz vengono affiancate scoperte più recenti come i corpi-volti di Eric Derkenne o l’onnipotente «transessualitànucleare» di Giovanni Galli. Sdoppiamento del sé e giochi di specchi testimoniano una ricerca identitaria istintiva come in Joseph Hofer o Robert Gie. Spezzettato e frammentato con Giovanni Bosco o riunito in un’unitàcosmica con Guo Fengyi, il corpo materializza un flusso perpetuo di cui l’arte si può impadronire per farne una testimonianza esistenziale.
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Karl Blossfeldt (1865-1932), grande pioniere della fotografia di natura, non era né un fotografo né un botanico. Docente presso il Museo delle Arti decorative di Berlino, aveva per il mondo delle piante un interesse di ordine artistico e didattico: appassionato dalla struttura dei vegetali — “che ne costituisce la più alta forma artistica nata dalla loro funzione” —, volle renderla visibile, soprattutto con finalità comparative, per mezzo della fotografia. È quindi essenzialmente per fini pedagogici che, a partire dal 1898, Blossfeldt fotografò numerose piante — che generalmente aveva raccolto e fatto essiccare di persona. A tal fine si era fabbricato da solo una macchina a lastra con la quale fotografare le piante con un ingrandimento da due a otto volte. In totale, questo insieme conterà quasi 6000 fotografie. Tra la fine degli anni ‘20 e l’inizio degli anni ‘30, diede alle stampe due libri, Urformen der Kunst (1928) et Wundergarten der Natur (1932), che avranno una profonda influenza sugli artisti del suo tempo, entusiasmando i surrealisti e i fautori della Nuova oggettività. Questi volumi hanno garantito la celebrità al loro autore e sono rimasti nella storia dell’arte e della fotografia come classici del genere. Les Essentielles raccoglie i più bei “ritratti di piante”— al tempo stesso rigorosamente oggettivi e assolutamente poetici — di Karl Blossfeldt.
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Questo magnifico libro presenta ai bambini l’amatissimo pittore impressionista e il suo fantastico giardino.
Nello splendido giardino allestito a Giverny, Claude Monet (1840-1926) piantò una moltitudine di iris, papaveri, piselli odorosi e, naturalmente, le celebri ninfee a cui riservò il posto d’onore su immense tele. Lo sguardo di questo album su Monet e sul suo giardino farà la felicitàdei bambini e li inizieràall’arte del grande pittore. L’album vede Monet arrivare nel suo giardino, poi evoca le stampe giapponesi che lo ispirarono e i personaggi importanti dell’epoca che furono suoi amici. I bambini scopriranno che Monet dipingeva grandi quadri all’aperto, dal vero, con qualsiasi tempo. Impareranno molte cose sui giardinieri di Giverny, costretti a lasciare il loro giardino per partire per la guerra. Su ogni doppia pagina, le spiegazioni sul giardino sono illustrate dai disegni originali di Giancarlo Ascari e Pia Valentinis. Partendo dal lavoro dell’illustre pittore, i due coautori fanno rivivere la sua opera a modo loro, in un immaginario tanto insolito quanto sensazionale. Un primo libro perfetto per scoprire Monet, la vita di questo artista e il suo lavoro attraverso il celebre giardino che fu per lui fonte di ispirazione.
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Clara Button ama disegnare, creare cose di ogni genere e travestirsi. Invitati a un matrimonio molto speciale, Clara e suo fratello Ollie si preparano con la massima cura. Ollie perfeziona una macchina di sua invenzione e Clara, concentrata sul suo abbigliamento, si reca in
merceria per cercare degli accessori. Ma alla vigilia del grande giorno accade un disastro.
Come se la caverà Clara? La sua grande creatività e la sua audacia si dimostreranno all’altezza della sorpresa che l’aspetta. Ricca di particolari divertenti, questa bellissima storia non
può non conquistare e affascinare.Editore : 5 Continents Editions -
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Nella piattezza del paesaggio emiliano sopravvivono ancora costruzioni che nessuno si fermerebbe a guardare perché prive di attrattiva spettacolare: sono case abbandonate, ridotte a ruderi, che attendono di essere riscoper te. In un’epoca pervasa dall’abitudine a dimenticare, Giancarlo Pradelli attraverso queste immagini ci fa scoprire il piacere del silenzio, dell’assenza; il suo punto di vista è quello dell’osservatore che nonostante la malinconia di una civiltàrurale ormai scomparsa, sa cogliere la dignitànelle cose create dall’uomo. Immagini in bianco nero essenziali, concise, che non conoscono retorica. Attraverso giochi di luce ed equilibri compositivi non casuali, le forme scheletriche rivelano soluzioni architettoniche trasformate dalla situazione di abbandono e acquistano nelle foto di Pradelli una straordinaria condizione di grazia e di sapiente eleganza.
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Clara Button ama i cappelli! Quando suo fratello maggiore Ollie massacra il suo cappellopreferito, quello della nonna modista, la loro mamma le propone di visitare il Victoria andAlbert Museum di Londra. Clara è stupita dal grande lampadario di vetro colorato, dai bellissimicostumi della galleria della moda, e soprattutto dai numerosi cappelli. Intrepida, Claraparte da sola alla ricerca di un cappellaio in grado di riparare il cappello danneggiato e faincontri favolosi. Ollie invece scopre un universo popolato di spade e tigri!
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« Que les Américains s’en rendent compte ou non, sa façon de voir la photographie est devenue la nôtre. »
US News & World Report
Le livre L’Œil du photographede John Szarkowski, fait suite àune exposition organisée en 1964 au Museum of Modern Art (MoMA) de New York et publié pour la première fois en 1966, est une ouvrage de référence dans l’histoire de la photographie.
Il rassemble des œuvres de maîtres incontestés aux côtés de celles de photographes inconnus, permettant de cerner avec exactitude le langage visuel de l’artiste photographe et révélant l’exceptionnel potentiel de ce médium. En effet, Szarkowski déclare « […] de façon plus convaincante que toute autre image, une photographie évoque la présence tangible de la réalité ».
Cette nouvelle expression artistique a soulevé un problème créatif d’un genre nouveau : comment faire pour que ce procédé mécanique et sans âme produise des images dotées de clarté et de cohérence et qui dénotent un point de vue ? Les photographies illustrant le volume ont été prises, notamment, par René Burri, Henri Cartier-Bresson, Walker Evans, Dorothea Lange, Irving Penn, Edward Weston, et apportent la réponse.
Les photographies sont classées en cinq sections, dont chacune concerne plus particulièrement l’un des cinq choix décisifs qui s’imposent à l’artiste dont l’outil est un appareil photo : le sujet, le détail, le cadrage, le temps, le point de vue.
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Un’antologia di fotografie della straordinaria collezione del MoMA che rivela la città di New York in tutta la sua vitalità, ambizione e bellezza.
Nel 1939 Berenice Abbott si chiedeva come rappresentare il flusso dell’attivitàdella metropoli di New York, l’interazione fra gli esseri umani che la abitano e le sue solide architetture, in una foto in bianco e nero, bidimensionale per definizione. Immaginare New York è il tentativo di dare una risposta. In questo volume sono raccolte una miriade di immagini, dal 1893 ai nostri giorni, che rispondono a questo problema. Più di un centinaio di scatti e di inquadrature speciali catturano la cittàicona dell’immaginario collettivo, rivelano una profonda relazione di simbiosi tra il fotografo e New York.
La selezione comprende immagini di fotografi famosi: Berenice Abbott, Harry Callahan, Henri Cartier-Bresson, Walker Evans, Helen levitt, Irving Penn, Alfred Stieglitz, Weegee, ma anche, come è tradizione per la collezione del museo, sconosciuti creativi. Le foto sono accompagnate da evocative citazioni su New York tratte da capolavori della letteratura americana.Editore : 5 Continents Editions